Archive for the ‘natura’ Category

Così muoiono le api

ottobre 25, 2008

Sembra che il grido d’allarme sia unanime: «Le api stanno morendo in tutto il mondo, soprattutto nelle campagne». Lo dicono gli apicoltori di tutti i continenti riuniti a Torino per Terra Madre. Sotto accusa le nuove e potentissime molecole neurotossiche, usate massicciamente ormai su tutte le coltivazioni.

«Le api riflettono il degrado del nostro pianeta – affermano gli apicoltori – sono esseri indispensabili, caratterizzati da una complessa e fragile organizzazione e ci dicono che bisogna cambiare comportamenti». «Le nuove molecole neurotossiche – sostiene Francesco Panella, presidente dell’Unione Nazionale degli Apicoltori Italiani – usate in modo crescente su tutte le coltivazioni sono così potenti, in dosi infinitesimali, da trasformare la linfa vitale, per tutto il ciclo della pianta, in subdolo insetticida» [fonte La Stampa]

La morìa delle api suggerisce scenari da incubo, come quello profetizzato da Albert Einstein: «Se l´ape scomparisse dalla faccia della terra all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita». Senza gli insetti che impollinano i fiori non crescereanno più i frutti, e questo può essere l’effetto domino che mette a rischio l’intero ecosistema. Anche in Italia il problema è grave, pare che le api si siano ridotte del 30-50%.

Non ho idea di cosa accadrebbe se, effettivamente, sparissero le api. Certo non mi pare un bel segno sulla qualità dell’ambiente.

Lettera al Club Alpino Italiano

ottobre 22, 2008

Lettera di Paolo Rumiz al presidente del Cai Annibale Salsa, in occasione del 98esimo Congresso del CAI a Predazzo (Val di Fiemme, Trentino).

Caro Salsa, ti invio questo mio intervento perché sia letto nella sede appropriata. Mi dispiace non essere venuto, ma nella lettera capirai.

Cari amici,

E’ curioso che non possa essere qui tra voi perché il mio giornale mi ha spedito a occuparmi di montagna. Questa mia diserzione è figlia della stessa emergenza che sarà sul tavolo dei vostri lavori. Devo vedere cosa accadrà quando la scure dei tagli pubblici si abbatterà sulle ultime scuole lasciate a presidio delle valli più lontane e spopolate. Lo dico con dolore. Per l’ennesima volta devo monitorare un abbandono di terre alte che apre la strada ai… cinghiali, al degrado e al saccheggio delle risorse. Il mio disappunto per non essere qui a Predazzo è attenuato – ma solo in piccola parte – da questa mia “chiamata alle armi” a difesa dei territori di cui – oggi qui – vi occupate.

Questa mia non è una semplice lettera formale di scusa per un’assenza. E’ qualcosa di più. E’ un’invettiva contro il degrado della montagna di cui vorrei che il Cai tenesse conto, e quindi vorrei fosse considerato un intervento a tutti gli effetti. Ritengo che i lavori sulla Tutela ambientale debbano essere prioritari su qualsiasi altra discussione, tale è l’emergenza che ci troviamo a fronteggiare. Tutto il resto – reclutamento soci, cultura, manifestazioni – sono quisquilie rispetto alla trasformazione biblica cui stiamo assistendo e che la civiltà dello spreco fa di tutto per non farci vedere nella sua reale gravità.

Gli alpinisti non sono una casta. Essi fanno parte dell’Italia e non devono tutelare se stessi per costruirsi serre riscaldate, ma esporsi in prima linea – nel vento forte – per tutelare coraggiosamente il loro Paese, il nostro Paese, senza guardare in faccia nessun Governo, nessun colore politico, nessuna confraternita di pressione economica o politica. Vorrei che il Cai sapesse di essere una lobby e di avere una massa critica e una capacità di pressione sufficienti a cambiare le cose, una forza d’urto che esso può esercitare, se necessario, platealmente, facendosi sentire con iniziative clamorose sotto il portone del Palazzo. Non ci sono più alibi per defilarsi.

Ho cominciato a frequentare la montagna da bambino. Da adolescente ho sognato le prime arrampicate leggendo “Alpinismo Eroico” di Emilio Comici, e talvolta, inseguendo questo eroismo ho rischiato la vita da incosciente. Erano gli anni in cui, specialmente nella mia Trieste, le Alpi erano le sentinelle della Nazione. Da Aosta a Tarvisio gli Alpini uscivano ancora con i muli. Poi è arrivata la stagione adulta, il sesto grado, le nuove vie aperte in Pale di San Martino, Gruppo dell’Agner, Dolomiti della Sinistra Piave. A trent’anni ho lasciato l’arrampicata, quando ho messo su famiglia, ma ho continuato a frequentare la montagna con occhio attento alle sue genti e al suo habitat.

Negli anni seguenti ho raccontato l’Alpe come giornalista e scrittore, continuando a percorrerla in silenzio, e più la percorrevo, più aumentava la mia insofferenza per certo alpinismo – ginnico, narciso e dunque infantile – che puntava all’estremo ignorando tutto ciò che circondava lo strapiombante itinerario verso la vetta. Tutto, a partire dagli uomini. Essi non vedevano l’agonia dei ghiacciai, l’inselvatichirsi del territorio, la desertificazione dei villaggi, la requisizione delle sorgenti, l’aggressione agli ultimi spazi vergini, la cementificazione degli altopiani, la costruzione di impianti di risalita nel cuore di parchi naturali. Non reagivano allo smantellamento del paesaggio che la nostra Costituzione ci impone di tutelare.

Nel 2003, l’anno della grande sete, ho monitorato le Alpi, in un affascinante viaggio di quattromila chilometri dal Golfo di Fiume fino alle Alpi Liguri. Ne ho tratto un racconto a puntate uscito in 23 puntate su “la Repubblica”, una pagina al giorno. Il Grande Male che ci mina dall’interno era visibile ovunque, nel prosciugamento dei fiumi. Mai nella storia d’Italia, erano stati così spaventosamente vuoti. Il loro simbolo era il Piave, teoricamente sacro alla Patria, ma praticamente ridotto a un rigagnolo, un greto allucinante spesso più alto delle stesse strade che lo costeggiano. Uno stupro perpetrato dalla stessa Enel che aveva ereditato il Vajont.

Non esiste in Europa un Paese con i fiumi nello stato pietoso di quelli italiani. Le nostre acque non mormorano più, sulle nostre valli scende una cortina di silenzio funebre di cui nessuno parla. La gravità della situazione non sta solo in quelle ghiaie allucinanti, ma nel fatto che pochissimi le notino, nel fatto che TUTTO attorno a noi – dalla pubblicità audiovisiva nelle stazioni alla dipendenza nazionale dai telefonini – è costruito perché non ci rendiamo conto del disastro e continuiamo a dormire sonni tranquilli fino a requisizione ultimata delle risorse superstiti.

L’opinione pubblica italiana dorme, sta a noi svegliarla. Sta a noi, innamorati della montagna, ricordare che l’Italia è malata e nonostante questo c’è chi vuole succhiarle le ultime risorse. Una notissima multinazionale dell’alimentazione sta apprestandosi a requisire le ultime fonti dell’Appennino tosco-emiliano; altre società hanno catturato le residue sorgenti libere della Val Tellina con la scusa di preservare una risorsa preziosa. Si inventano eufemismi per consentire gli espropri: per esempio “neve programmata”, per nobilitare quel salasso di fiumi moribondi che si chiama innevamento artificiale.

Si afferma che pompare acqua dai fiumi serve a sostenere l’economia della montagna e quindi a evitare lo spopolamento, ma tutti – anche i citrulli – sanno che quegli impianti affogano in deficit spaventosi che la mano pubblica, resa sensibile da opportune donazioni, sarà chiamata a coprire con i nostri soldi. E tutti, nel comparto, sono a conoscenza che più nessuno in Austria, Francia, Slovenia, Svizzera e altre nazioni montanare d’Europa, programma seggiovie a quote dove la neve non arriva se non episodicamente.

Ma la grande scoperta della mia vita di giornalista è stata l’Appennino, che ho percorso metro per metro nel 2006, dando vita a un’altra serie di reportage. Ho scoperto un arcipelago di meraviglie e una rete di uomini-eroi che si ostinano a resistere in quota perché hanno la lucida certezza che l’equilibrio del nostro Paese dipende dalle terre alte. Un’Italia minore, dimenticata dal potere, della quale temo che il nuovo federalismo in auge servirà solo a sdoganare il saccheggio.

Il simbolo di questa aggressività suicida del Paese verso la sua montagna l’ho visto incarnato nella pastorizia, massacrata di divieti e schiacciata da un’alleanza fra burocrati di provincia e una grande distribuzione che spaccia nei nostri negozi carne straniera senza nome e senza qualità. La pastorizia, cenerentola dimenticata, dopo essere stata per secoli inestimabile ricchezza del Paese.

Sempre più spesso capita che ai piccoli comuni spopolati e in bolletta si presentino emissari di grandi aziende che, in nome dell’equilibrio ambientale e altre cause nobili come l’abbattimento del CO2 o il salvataggio delle acque, propongano la costruzione di piccole o grandi centrali, come quella a biomasse che presto stravolgerà la parte più intatta dell’Appennino parmense. Senza più lo Stato alle spalle, questi Comuni non hanno più gli argomenti tecnici e la capacità contrattuale per dialogare alla pari con questi giganti danarosi, capaci di mettere a tacere qualsiasi resistenza. La montagna da sola non ce la fa a proteggersi. Anzi, talvolta è la peggior nemica di se stessa.

Per questo credo che, oggi nel Cai, il ruolo di sentinella dell’Alpe vada rivisto. Noi soci restiamo sentinelle, certo: sapendo però che il nemico non è più esterno alla frontiera, ma abita qui e si muove come vuole nella finanza, nell’economia e nella politica del Paese. Per batterlo serve un’alleanza fra città a provincia, alpinisti e montanari. Il Cai deve ritrovare lo spirito delle origini, laico e indipendente dell’Italia post-risorgimentale che partì alla scoperta di se stessa, monitorando, crittografando, esplorando con passione ogni angolo sperduto del territorio appena unificato. L’Italia è un Paese di montagna, e non voglio che diventi un’esausta colonia, a disposizione di poteri senza patria.

E verrà un giorno in cui i fiumi si svuoteranno, l’aria diverrà veleno, i villaggi saranno abbandonati come dopo una pestilenza, giorni in cui la neve e la pioggia smetteranno di cadere, gli uccelli migratori sbaglieranno stagione e gli orsi non andranno più in letargo. Verrà anche un tempo in cui gli uomini diverranno sordi a tutto questo, dimenticheranno l’erba, le piante e gli animali con cui sono vissuti per millenni.

Sembrano le piaghe d’Egitto. Invece è l’Italia di oggi. Pensate che uno ci dica tutto questo, un profeta solitario incontrato per strada. Gli daremo del matto? Oppure taceremo per la vergogna di ammettere che è già successo e di non aver fatto niente per impedirlo?

Paolo Rumiz

da http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=7954814

I cervi in paese

ottobre 15, 2008


Un cervo maschio fugge a rotta di collo al nostro arrivo

Sono andato a vedere i cervi nel Parco Nazionale dello Stelvio. E’ la stagione degli amori, i bramiti impressionanti dei maschi squarciano il silenzio dei boschi. L’idea era di provare a fare qualche foto e qualche videoripresa. Ci siamo alzati alle 5 di mattina e siamo arrivati a Malga Stablaz con le prime luci dell’alba. Poco sopra la malga c’è una vasta conca dove gli avvistamenti sono quasi “garantiti”.

Invece che arrivare di soppiatto, furtivi, siamo sbucati come due bagonghi, vestiti di rosso. All’inizio pareva tutto deserto, poi il mio vigile occhio ha individuato due cerve immobili tra la brughiera che ci fissavano. Appena il tempo di dire “eccoli!” che improvvisamente si sono “materializzati” decine di cervi che si sono messi tutti a scappare a rotta di collo. Neanche il tempo di puntare il teleobiettivo.

Qualcuno aveva detto che nella stagione degi amori i cervi “non capiscono nulla” e non badano alla presenza dell’uomo. Infatti s’è visto: dopo il fuggi fuggi si sono fermati in una zona lontanissima, in ombra, un vero schifo per le riprese video fotografiche. Col mio 320 mm si vedevano a malapena dei puntolini. La videocamera aveva un teleobiettivo molto più potente, un 800 mm, ma a tutto tele era un calvario inquadrare i cervi ad una distanza superiore a 400 metri, sia pure con un solido cavalletto.

Insomma un disastro. Ci voleva forse meno approssimazione, più pazienza. Abbiamo sbaraccato tutto e proseguito il giro in montagna che avevamo in mente. Questo mi ha confermato, se mai ce n’era bisogno, una verità incontrovertibile: fare riprese serie durante una gita in montagna è incompatibile. O fai la gita o fai le riprese. Non c’è una via di mezzo.

Alla sera, col buio, siamo andati a vedere i cervi con l’auto. Sissignori, avete capito bene: con l’auto. Sembra incredibile ma appena fuori dal paese di Cogolo, in una grande spianata di prato, pascolano tranquillamente i cervi a poche centinaia di metri dalle case. Giri un po’ l’auto e illumini coi fari i prati a lato della strada: decine di occhi rossi si muovono nel buio. Gli animali se ne stanno lì tranquilli, abbiamo puntato coi fari un grosso maschio a non più di 6-7 metri sul bordo della strada. Ha alzato un po’ la testa, poi si è allontanato pigramente.

Sono sceso guardingo dall’auto, in punta di piedi, ed ho tentato l’avvicinamento in stile “gatto silvestro”. Rapide e felpate corsette mentre il cervo brucava, fermo immobile appena alzava la testa. Sono arrivato a soli 10 metri di distanza, riparato alla vista da una baracchetta. Ma la luce dei fari della macchina, rimasta a 100 metri di distanza, era troppo debole e toccava scattare con tempo di posa di qualche secondo a 1600 iso: improponibile. Ho scattato qualche foto “a panza” e ciao.

Mi sono interrogato sul fatto dei cervi che pascolano appena fuori dal paese: come mai lo fanno? E’ un buon o brutto segno? Non ho ancora trovato una risposta…

PS: la foto fa schifo lo so, ma ecco il cervo illiminato dai fari dell’auto

Ancora sci demenziale

settembre 8, 2008

Assalto a Carezza e seggiovia sul Latemar. Arriveranno piste, impianti, un lago artificiale e 170 cannoni da neve. Ecco le foto dello scempio, pubblicate da L’Alto Adige.

Con un lavoro istituzionale ben concertato la Provincia Autonoma di Bolzano, i comuni di Nova Levante (BZ) e Vigo di Fassa (TN), hanno orchestrato l’operazione dell’ assalto definitivo all’area di Carezza e Costalunga. Si è atteso che i turisti abbandonassero il territorio e già con i primi di settembre decine di ruspe, trattori, boscaioli erano all’opera per incidere in modo selvaggio la foresta demaniale del Latemar, per costruire nuove piste da sci e nuovi impianti che aggrediscono sia il Latemar verso occidente che la Roda di Vael ed il Catinaccio ad Oriente.

Si sta così distruggendo l’area cuscinetto del Latemar incidendo quindi nel territorio che doveva essere tutelato dall’UNESCO come Dolomiti-Patrimonio Naturale dell’Umanità. La foresta ora è già sventrata e nella sola giornata di oggi il locale comitato ha raccolto oltre 1000 firme perché la Provincia intervenga a difendere questo straordinario patrimonio paesaggistico.

La società Latemar Carezza Srl vuole costruire il “Carezza Ski King Of the Dolomites”, un nuovo carosello sciistico. Si tratta di un impianto con cabinovia a sei posti che salirebbe il costone Rotschingher distruggendo 18 ettari di foresta che vanta legname pregiatissimo e pascoli; la costruzione di ben tre piste, una nuova seggiovia che colleghi il rifugio Coronelle al Costalunga, un’altra che da Malga Moser porti al costone Rotschinger tra il rifugio Coronelle e il Paolina, arrivando a soli 80 metri dalle pareti del Catinaccio, alla base della Cima Sforcella e della Roda di Vael. E’ inoltre previsto un bacino di accumulo acqua per 100.000 mc con la messa in opera di 170 postazioni per cannoni da innevamento artificiale.

(via Officina Ambiente Trentino)

Mancano perfino le parole per deplorare questo ennesimo scempio. E ammesso di trovarle, servirebbero a qualcosa? Tanto fanno quello che vogliono. Se osservate una carta della zona dolomitica non c’è più un km quadrato libero da impianti e piste. Hanno costruito impianti su ogni montagna, fin nelle più piccole valli, occupato ogni pendio utile. Ma ancora non gli basta: nonostante i problemi del clima, della mancanza d’acqua, del modello economico perennemente in perdita (se non fosse per i contributi provinciali), dello sviluppo selvaggio che ha trasformato le valli alpine in succursali cittadine invase dal traffico e dallo smog, eccoli ancora alla carica, a sfasciare gli ultimi angoli rimasti miracolosamente intatti. Sci e ancora sci, ottusamente avanti sempre e comunque, come se nulla fosse, con un’idea di sviluppo vecchia di 40 anni.

Sentiero di cemento

settembre 7, 2008


La colata di cemento sul sentiero in Val de Grepa

Quando Paolo Ianes, un avvocato di Trento appassionato di montagna, si è trovato davanti la “pista di cemento” non riusciva a credere ai suoi occhi: «È una vera e propria colata su un sentiero spesso ripido ma molto bello perché il fondo è costituito da vecchissimi ciottoli, messi a prezzo di chissà quali fatiche dalle genti di montagna. Ora tutto è sommerso da uno spesso strato di cemento grigio. Si fa persino fatica a immaginare lo scopo di un tale scempio: facilitare la salita in quota delle moto? Discese di down-hill? Non so, ma qualsiasi cosa sia è un intervento pazzesco».

Fausto Castelnuovo, sindaco di Mazzin che ha deciso l’intervento sul sentiero 645 in Val de Grepa (Sat 645), precisa che si tratta di un esperimento: «Il sentiero era ormai tutto buche e sassi con salti anche di mezzo metro benché lo avessimo sistemato alla vecia solo 7-8 anni fa. Così quest’anno abbiamo sperimentato un nuovo tipo di intervento, ma solo su due tratti lunghi una trentina di metri. Nulla di più. Ora verifichiamo il gradimento o meno e poi decideremo se andare avanti ose invece togliere tutto».

Il sentiero cementifcato coincide con la «Via Alpina», un percorso internazionale che collega Monte Carlo a Trieste. Quello che lascia sgomenti è la mancanza di senso, di logica in tutto questo: cemento su un sentiero, ma perché?

da l’Adige 6 settembre 2008

Vacche magre

agosto 26, 2008

“Io non so quali siano i costi di tutte la azioni finanziate dalla PAT finalizzate alla zootecnia, ma credo che, sommando tutte le voci del bilancio per la zootecnia, per tutti i centri e le strutture tecniche e commerciali presenti sul territorio, si arrivi a cifre davvero ingenti.

Se quella quota, divisa per vacca, fosse trasferita direttamente alla vacca, cioè al padrone della vacca, quest’ultimo potrebbe stare in piedi in termini di reddito della famiglia con un numero di animali inferiore e con una produzione di qualità. Avremmo anche eliminato strutture molto costose e qualche volta autoreferenziali”.

E’ un passo di un interessantissimo articolo del prof. Michele Corti: “48 milioni di debiti per il Caseificio di Fiavé – Nonostante poli bianchi, fusioni ed economie di scala, i costi di gestione sono insostenibili

da ecceterra.org

Sviluppo

agosto 23, 2008

Un bel mini-documentario che illustra molto bene come funziona lo sviluppo delle società moderne. Il sistema economico-finanziario schiaccia l’individuo e la sua pretesa, abbastanza velleitaria, di tenere comportamenti ecologici.

Morto il rivoluzionario dell’agricoltura naturale Masanobu Fukuoka

agosto 21, 2008

Masanobu Fukuoka è morto il 16 agosto scorso all’età di 95 anni. E’ stato il padre fondatore dell’agricoltura naturale, un rivoluzionario che già a 25 anni (intorno al 1940) intuì che il modello produttivo occidentale che si stava diffondendo in Giappone in quel periodo andava profondamente rivisitato. Ecco che quindi si posero le fondamenta della pratica del non fare, o meglio, del lasciare fare alla natura.

Niente aratura, niente fertilizzanti, nessun insetticida o diserbante, l’agricoltore deve solo seminare e raccogliere i frutti, restituendo poi la maggior parte possibile di quello che è stato tolto al sistema naturale.

Sono stato, fin da subito, suo fervido seguace, non tanto per profonda convinzione quanto per invincibile pigrizia. Purtroppo i risultati non sono stati all’altezza, e il mio orto è invariabilmente, nonostante i modesti sforzi, una giungla impenetrabbbile. Dove avrò sbagliato? 🙂

via ecoblog